Dal Forum dell’Economia Digitale una conferma: chi non investe sul digital resta indietro.

Oggi sono stato al Forum dell’Economia Digitale organizzato da Confindustria e sponsorizzato, alla grande, da Facebook. Ed è proprio di Facebook che si è parlato prevalentemente, che poi è anche il motivo per cui ho partecipato al Forum.

Come sempre, in sala, era più la gente che chattava e/o postava, di quella che guardava e/o ascoltava.

Oggi ho avuto l’ennesima conferma che, in questo preciso momento storico, chi non investe sul digital e sui social in particolare, resta indietro. Nessuna novità rilevante, quindi, però un’importante conferma, che smentisce le voci su una possibile crisi di Facebook.

Tra le cose interessanti che mi sono appuntato, almeno fino a che sono rimasto, ci sono queste:

Il 60% dei ragazzi sta studiando per fare un lavoro che ancora non esiste (Marco Gay, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria).

Siamo al 25esimo posto in Europa per lo sviluppo digitale. Sembra una buona notizia ma potrebbe anche non esserlo (Marco Gay, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria).

Nel 2020 il 75% dei contenuti condivisi sui device saranno video (Laurent Solly, Direttore Facebook per il Sud Europa).

E poi, segnalo la bella storia della Birra Baladin, realtà del cuneese, raccontata dal suo fondatore Teo Musso. Baladin, per arrivare dov’è arrivata, ha puntato tantissimo sui social. Chapeau.

Tra gli interventi, interessanti quello di Giovanni Malagò, Elisa Di Francisca e Gregorio Paltrinieri che hanno parlato del rapporto tra lo sport e i social. E quello di Andrea Guerra, Presidente Esecutivo Eataly.

Grandissimo, come sempre, Marco Montemagno, che ha presentato l’evento insieme a Stefania Pinna.

Le aziende su Instagram: esserci per forza solo perché è di moda.

Nell’epoca dell’apertura frenetica di pagine e canali social alcuni suggerimenti sull’utilizzo di Instagram per le aziende.

stacy Oggi parlerò di Instagram.

Uno dei difetti delle aziende italiane, grandi-medie-piccole che siano, è quello di essere presenti a raffica su tutti i social solo perché quei social sono di moda, o solo perché la gente ne parla e se ne parla sui media.

Prendiamo appunto il caso di Instagram, per esempio.

Instagram è il social che insieme a Facebook ha avuto il più alto tasso di incremento nell’ultimo anno. La tipologia di aziende più presenti su questo social appartengono al Food, al Beverage e all’Enterteinment, e colpisce il dato che fissa il Travel al nono posto*.

Nell’ultimo anno le aziende si sono precipitate ad aprire il loro profilo aziendale Instagram.

E poi?

Dopo qualche settimana di fotografie postate senza capo né coda, la frenesia (fortunatamente) è finita. E adesso Instagram è diventato, per loro, un canale muto. Il peggio che potesse accadere.

Ciò significa che dietro alla scelta di aprire un canale social, non c’è una strategia ben precisa e, peggio ancora, non ci sono risorse e cervelli.

Inoltre, la maggior parte delle aziende non sa che prima di aprire un profilo Instagram bisogna accertarsi che il pubblico di riferimento sia lì. Perché non è detto che lo sia. Magari se ne sta beatamente da un’altra parte.

Ma facciamo finta che il target sia lì, su Instagram: siamo sicuri di avere qualcosa di interessante da raccontargli? E ancora, abbiamo visto cosa fa la concorrenza? C’è o non c’è su? Come si comporta? Fa solo branding selvaggio o fa anche Storytelling interessante?

Tutte cose che vanno esaminate, prima di farsi prendere dalla foga di aprire un profilo aziendale.

Vi lascio con una notizia: la rivista americana Time, che premia annualmente il miglior account Instagram, ha premiato per il 2015 Stacy Kranitz, che non è un’azienda ma una persona, per avere utilizzato Instagram “nel modo in cui dovrebbe essere usato: per testimoniare le cose mentre accadono”.

Intanto, se volete qualche consiglio su come migliorare la vostra presenza sui social media, scrivetemi. Sarò felice di scambiare due chiacchiere con voi.

Nella foto l’account di Stacy Kranitz.

* Dati tratti dalla ricerca “La SocialMediAbility delle aziende italiane” dell’Osservatorio IULM sui Social Media in collaborazione con BlogMeter di cui ho parlato in questo articolo.

Cresce la SocialMediAbility delle aziende italiane, ma c’è ancora tanto da fare.

osservatorio iulm social mediaIl 28 gennaio scorso ho partecipato all’evento La SocialMediAbility delle aziende italiane, in cui l’Osservatorio IULM sui Social Media (in collaborazione con BlogMeter) ha presentato i risultati della consueta ricerca annuale sull’utilizzo dei canali social da parte delle aziende italiane.

Seppur in crescita, l’indice medio della SocialMediAbility ci disegna uno scenario sconfortante: c’è infatti ancora tanta strada da fare affinché le aziende italiane scoprano le vere potenzialità del Social Media Marketing.

Ma vado con ordine.

La ricerca si è basata su un panel di 720 tra grandi, medie e piccole aziende italiane, selezionate tramite sorteggio, e suddivise in 6 categorie di appartenenza: Alimentare, Arredamento, Banche, Hospitality, Moda e Aziende appartenenti al cosiddetto B2B (manifattura, legno, gomma, plastica e metallurgia).

I principali dati emersi sono questi:

Il 25% delle aziende monitorate non possiede ancora un sito internet. Dato molto grave, considerata ormai l’importanza della rete nel rapporto con i consumatori
Il 73% delle aziende utilizza almeno un canale social. Dato confortante, se non fosse macchiato dal fatto che molte di queste hanno aperto il canale ma non lo hanno sviluppato
Cresce sensibilmente la presenza sui social delle PMI e si riduce quindi il divario con le grandi aziende rispetto alla ricerca dell’anno precedente
Facebook è di gran lunga il social più utilizzato con il 79%, seguito da YouTube con il 55% e da Twitter e Google+ con il 48%
Il 18% delle aziende che ha aperto un canale social non lo ha comunicato sul sito o comunque non ha i link social in evidenza sulla Home Page
Solo il 50% delle aziende ha una strategia social basata su un preciso piano editoriale, quindi un’azienda su due ha i social ma li usa senza testa (questo dato è comune a tutti i canali social attivati)
Su Facebook, quindi il social di gran lunga più gettonato, il 40% dei post è di carattere commerciale con protagonisti il brand e i suoi prodotti. Il 27% sono relativi ad eventi aziendali e solo il 16% dei post si possono classificare tra quelli “interessanti”, cioè quelli che producono davvero engagement, e creano relazioni e condivisioni tra i fan della pagina
La crescita dell’indice medio complessivo della SocialMediAbility (SMA) delle aziende è quindi modesto: si passa infatti dal 3.6 del 2013 al 4.2 del 2015, in un range da 1 a 10.

E’ chiaro che da questi dati emerge una situazione critica sull’utilizzo dei social media da parte delle aziende italiane.
Aziende che non hanno ancora compreso il vero significato della relazione con il target attraverso i canali sociali: la maggioranza di esse pensa, infatti, che sia sufficiente parlare di sé e dell’azienda con contenuti di carattere autoreferenziale per generare engagement e, magari, aumentare il fatturato. Ma purtroppo le cose non stanno così.

I social, infatti, non sono nati esclusivamente per aumentare le vendite, ma per sviluppare e migliorare la relazione con i (potenziali) clienti (il “Marketing Relazionale”), basandosi su una precisa strategia di “social caring” con fan e follower che, alla lunga, potrebbero diventare i perfetti testimonial dell’azienda e, perché no, anche acquistare e consigliare i prodotti che gli vengono proposti.

In sostanza, le aziende italiane usano i nuovi media come se fossero i vecchi media: la stessa strategia adottata per i canali offline (tv, stampa, radio) viene replicata per quelli online, che necessitano invece di argomenti e strategie decisamente diversi.

Al termine della presentazione è partita un’interessante tavola rotonda dalla quale sono emerse nuove e preoccupanti rivelazioni. Su tutte, quella che la maggior parte dei siti delle aziende monitorate non è responsive. E in un periodo storico in cui è avvenuto il sorpasso delle visite da mobile sulle visite da desktop, la cosa è deprimente.

La discussione ha portato anche a consigli e soluzioni per cercare di tamponare la gravità dello scenario che la ricerca ha svelato.

Ma di questo parlerò nel prossimo post.

Intanto, se volete qualche consiglio su come migliorare la vostra presenza sui social media, scrivetemi. Sarò felice di scambiare due chiacchiere con voi.

Facebook e il punteggio di pertinenza.

E’ di qualche giorno fa la notizia che Facebook renderà visibile agli investitori pubblicitari il cosiddetto “punteggio di pertinenza” relativo alle comunicazioni promozionali pubblicate all’interno della sua piattaforma di Advertising.

E’ un annuncio importante perché significa che il re dei social si sta adeguando agli standard già attuati da Google per le campagne Adwords Pay per Click.

Sull’interessante sito di Fabio Piccigallo trovate un interessante approfondimento su questa novità.

Google+? Un terribile flop. E Mark Zuckerberg gongola.

I fan di Google+ non crederanno ai loro occhi leggendo ciò che sto per scrivere.

Google+ non lo usa nessuno. O, meglio, non lo usa quasi nessuno.

Da uno studio di Greg Miernicki risulta infatti che il social network della grande G, che doveva fare il mazzo a Facebook, avrebbe solamente fra i 4 e i 6 milioni di utenti attivi. Ed effettivamente è un po’ pochino se si considera che gli utenti che hanno un account su Google si aggirano intorno ai due miliardi.

La piattaforma di Google, appare oggi come una terra di nessuno, che sopravvive alla chiusura solo grazie all’interconnessione dei profili con tutti gli altri servizi di Google, in particolare Gmail e YouTube.

Analizzando i dati dello studio di Miernicki, si scopre che appena il 9% dei 2,2 miliardi di utenti registrati abbia mai utilizzato Google+ per pubblicare un contenuto pubblico. Le cifre sono implacabili: appena lo 0,2-0,3% dei profili Google+, cioè 4-6 milioni di utenti, avrebbe dato segnali di vita nei primi venti giorni del 2015, un insieme di produzione di contenuti tale da coinvolgere solamente 244mila utenti al giorno.

Si tratta di un’analisi chiaramente parziale e che si basa su un elenco di profili pubblici, ma di certo è significativa dell’insuccesso di una piattaforma che pare non essere riuscita a conquistare il cuore degli utenti, poco affascinati da cerchie e schede.

E, intanto, mister Zuckerberg gongola.